La mia arte ti eterna
- roliimorw1
- 29 ott 2022
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Aggiornamento: 30 ott 2022

In diversi momenti tra il 1892 e il 1894 Claude Monet si trova alla finestra del negozio Au Caprice in rue du Grand Pont, a dipingere una serie di circa cinquanta dipinti ritraenti lo stesso soggetto, la Cattedrale di Rouen, in Francia. La struttura è prediletta dall’artista per la presenza delle vetrate e dell’articolato apparato decorativo, ma il pittore non è tanto interessato all’architettura della cattedrale quanto a dimostrare come un unico soggetto, ripreso da un unico punto di vista, grazie alla straordinaria polimorfia della luce e dei colori, sia sufficiente a generare stimoli visivi sempre nuovi. Attraverso questa serie di opere studia infatti come cambia l’aspetto delle cose con lo scorrere del tempo e al mutare delle condizioni di luce, fenomeni che hanno la precedenza sulla percezione dell’immagine, reinterpretata soggettivamente. La cattedrale è ormai solo un pretesto per un’intensa meditazione artistica che fonde sensazioni, pensieri fuggenti e pensieri duraturi. Queste opere hanno avuto la forza di colpire le immaginazioni, poiché non si tratta di figure definite, precise e dettagliate, bensì un’impressione, fuggevole e percepibile in modo differente da ogni paio di occhi, grazie ad una tecnica in cui la realtà materiale dell’oggetto si sfalda e si risolve nella luce che denomina l’istantaneità. “Il pittore ci ha fatto intendere che avrebbe potuto fare cento, mille dipinti, tanti quanti sono i secondi della sua vita, se la sua vita fosse durata quanto il monumento di pietra e se avesse potuto fissare su una tela tanti momenti quanti sono i battiti del suo cuore”. Si crede che le cattedrali avrebbero potuto ispirare il pensiero del filosofo Henri Bergson; e sono ammirate da Renoir, Degas e Cézanne, che afferma lui stesso la funzione dell’arte di catturare lo spirito per trattenerlo e perpetuarlo. Nel guardare uno dei dipinti si viene trasportati per un momento accanto all’artista: un attimo fugace, che se non fosse stato per la sua opera, sarebbe svanito per sempre.
L’uomo vive con il tempo un rapporto antagonistico, egli si deve arrendere alla corrente inarrestabile del tempo, è necessario che viva nel presente poiché non si possono avere certezze sul futuro, e alla fine della fragile vita dell’uomo lo attende la morte. Questo afferma Orazio, poeta latino del I secolo a.C., nell’undicesima ode del primo libro, secondo il quale l’aetas fugge costantemente e l’uomo deve carpere diem, ovvero cercare di afferrare una parte del presente dalla totalità e farla sua. Il modo per bloccare un attimo e sospenderlo nell’eternità è proprio attraverso l’arte. L’arte, in tutte le sue forme, è l’unico mezzo per congelare un istante dell’infinito scorrere del tempo, l’artista ha il potere di rubare un piccolo pezzo di storia al flusso della natura, per farlo rivivere a chi è ormai lontano da quella realtà, e di rendere una precisa immagine, di sé o di un altro, immortale. La poesia, sin dai tempi più antichi, è l’arte che per eccellenza ha il potere di donare l’immortalità all’uomo e ai suoi pensieri, facendo sì che restino vivi per sempre nella memoria. Orazio trova nella poesia uno strumento per vincere la caducità realizzata dal tempo e dalla natura. Mentre tutto è costretto a consumarsi, il poeta attraverso la propria opera eterna, riesce a contrastare l’azione del tempo costruendo un monumento che non si può distruggere, più duraturo del bronzo, fatto di parole.
Orazio - Exegi monumentum (Odi 3,30)
Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo impotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine Pontifex. Dicar qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium regnavit populorum, ex humili potens, princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam. | Ho realizzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto della mole regale delle piramidi, il quale non la vorace pioggia, non l’Aquilone sfrenato potranno abbattere o l’incalcolabile serie di anni e la fuga dei tempi. Non morirò tutto e molta parte di me scamperà a Libitina: io crescerò sempre attuale grazie alla fama presso i posteri, finché il pontefice salirà al Campidoglio con la vergine silenziosa. Si dirà di me laddove strepita tempestoso l’Ofanto e laddove povero di acqua Dauno regnò su popolazioni agresti, divenuto potente da umile, che io per primo ho trasferito la poesia eolica sui ritmi italici. Prendi l’orgoglio conquistato con i tuoi meriti e cingimi benevola la chioma con l’alloro di Delfi, Melpomene. |
Metro asclepiadeo minore, utilizzato solamente nelle odi 1,1 e 3,30 per collegare l’inizio della raccolta, in cui si rivolge a Mecenate illustrando la propria scelta di vita all’insegna della poesia, alla fine, in cui conclude l’esperienza poetica.
Note
Da moneo, termine dall’ampio significato che consente di riferirsi a tutto ciò che è un tramite per il ricordo.
Relativa al congiuntivo con valore consecutivo: “ho realizzato un monumento tale che non ho possano abbattere..”
Uso del plurale temporum dilata il concetto, vuole raccogliere in sé le indefinite sequenze temporali; da qui la scelta dell’aggettivo innumerabilis. Insiste sulle congiunzioni coordinanti tutto ciò che la sua opera riuscirà a vincere.
Dea romana dei funerali, metonimia per indicare la morte.
Non solo non tutto di lui morirà ma ciò che resterà sarà sempre attuale per i posteri. Utilizza un chiasmo per stabilire un rapporto tra lui e coloro che verranno.
Grecismo sintattico. Riferimento al fiume Ofanto che scorreva non lontano da Venosa, città natale di Orazio, e alla figura del leggendario re della regione della Puglia. Le due relative vogliono mettere in luce il luogo di nascita di Orazio.
Predicativo di forte rilievo per il primato nella poesia lirica.
Musa della tragedia.
A livello sintattico è molto semplice, Orazio rifugge dall’eccessiva complessità nella costruzione dei periodi, le parole che sceglie sono di uso comune. Dove realizza gli effetti che riesce ad ottenere è grazie alla studiata collocazione delle parole.
Con quest’ode, contenuta nel terzo libro con il valore conclusivo di sigillare l’esperienza poetica, Orazio celebra la potenza dell’arte capace di rendere l’uomo immortale. Il poeta nei primi due versi afferma l’orgoglio per l’opera che ha compiuto, consapevole della sua perpetuità, per poi contrapporla all’azione distruttiva degli agenti atmosferici o del passare del tempo, a cui solo i versi possono sopravvivere. E non solo non tutto di lui morirà, ma ciò che resterà sarà sempre attuale per quelli che lo leggeranno dopo, e chiunque lo sentirà vicino a sé, sempre presente, poiché nessuno desidera un’eterna vecchiaia ma un’eternità che rimanga nuova. In seguito sembra mettere un limite alla sua immortalità poetica, affermando che durerà finché lo farà Roma, rappresentata attraverso le sue istituzioni principali. Per un romano dire ciò è come dire “Finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”, perché l’idea che Roma possa finire non esiste. Il suo orgoglio di poeta traspare quando fa riferimento alle sue origini: come molti poeti augustei, che pure sono immersi nella vita della capitale, mantiene un affetto particolare per la Puglia, terra natia, ed era figlio di un liberto. Ma la potenza ottenuta a cui allude non è data dalla ricchezza o dal potere politico, quanto dall’attività poetica. Egli è stato il primo poeta di Roma a realizzare la poesia lirica in latino riprendendo il modello della poesia lirica greca arcaica, in particolare la poesia eolica dei poeti di Lesbo Alceo e Saffo, che avevano raggiunto l’eccellenza. Il motivo del primato è fortemente sentito dai poeti augustei; Orazio non ignorava che prima di lui altri poeti come Catullo e i poetae novi avevano scritto poesie liriche, ma la loro produzione sembrava ad Orazio priva di un programma poetico preciso, realizzato invece da lui. Alla fine dell’ode utilizza immagini tradizionali della poesia, la musa e l’alloro di Delfi, che rimanda al dio Apollo, come simbolo dell’immortalità del poeta corrispondente a quella della poesia. La musa non è ripresa con la visione di un poeta arcaico, limitato ad essere un tramite per la divinità, poiché la poesia è totalmente creazione del poeta; tuttavia Orazio, che fino ad allora ha esaltato la sua opera, trasferisce in lei il suo orgoglio, per smorzare i toni e non risultare troppo superbo, alla luce del modus che lo caratterizza. Orazio è seguace della filosofia epicurea, per cui tutto muore, anche l’anima, e l’unica forma di sopravvivenza che può concepire è la sua attività letteraria, il cui obiettivo diventa quello di sottrarsi allo scorrere inesorabile del tempo e al suo potere distruttivo. Orazio nasconde dietro un’apparente semplicità lessicale sia sentimenti unici che non potrebbero trovare altra espressione se non nella poesia, sia il complesso desiderio di immortalità connaturato all’uomo, che cerca di affermarsi nello spirito del tempo e nel ricordo delle proprie parole costruite, in ambito poetico, con una profonda ricerca ed elaborazione tale da renderle vicine a chi le legge anche dopo molti anni, consentendo alle generazioni future di immedesimarsi in esse.
Di questo potere eternatore dell’arte sono altrettanto consapevoli poeti come Ovidio, che nell’elegia autobiografica con cui chiude i Tristia, sottolinea la sua inclinazione poetica: “Perciò se i presagi dei poeti hanno qualcosa di vero, dovessi anch’io subito morire, non sarò tuo, o terra”, dichiarando solennemente l’immortalità che si augura di ottenere grazie alla poesia. Allo stesso modo Properzio nella sua dichiarazione di poetica si dimostra consapevole che anche dopo la sua morte il suo nome resterà sulle labbra degli uomini attraverso i suoi versi, raffinati come la poesia del nominato Callimaco, il quale ulteriormente dedica l’epigramma VII all’amico Teeteto, poeta le cui opere non riscuotono un immediato successo come quelle dei poeti drammatici, ma saranno lodate anche più a lungo dai pochi che ne comprenderanno il valore, perfino dopo la sua morte. Se qui gli autori stessi sono protagonisti dell’opera, tramite del loro eterno ricordo e fama tra i posteri, lo scenario cambia quando essa è concepita dall’artista come dono più grande che si possa fare ad una persona cara: così Catullo dedica i suoi carmi a Lesbia, e Properzio a Cinzia. Orazio nell’ode 4,8 scrive all’amico Censorino che non possiede ricchezze, ma che gli donerà una delle cose più belle che possa donargli: l’eternità, attraverso i suoi versi.
“E tu da me avresti i doni più belli, se la mia ricchezza consistesse in quelle arti, che furono l’orgoglio di Parrasio o Scopa, abile questi a rappresentare nel marmo, quegli coi vivi colori un uomo o un dio. Ma io non ho questo potere, né tu hai cuore o gusto di desiderare quelle delizie. Tu ti diletti di canti: e di canti io posso farti dono, e assegnare un prezzo alla mia offerta. Non sono le iscrizioni incise sulle lapidi a pubblico ricordo, che possono rendere dopo la morte il soffio della vita e il vigore ai valenti condottieri [...]. A un uomo degno di lode, la Musa impedisce di morire, la Musa lo fa beato in cielo.”
Forse scritta in occasione di Saturnali, feste in cui si usava scambiarsi i doni, Orazio rifiuta i beni precari, scegliendo di offrire a Censorino l’eternità e quindi la libertà dal timore della morte, racchiudendo il suo spirito in versi poetici che valgono più delle opere materiali. Lo stesso intento ha il canto d’amore di Teognide di Megara, che dona le ali dell’eternità al suo amato Cirno.
Teognide - Canto d’amore (Corpus Theognideum, vv.237-254)
Σοὶ μὲν ἐγὼ πτέρ' ἔδωκα, σὺν οἷσ' ἐπ' ἀπείρονα πόντον πωτήσηι, κατὰ γῆν πᾶσαν ἀειρόμενος ῥηϊδίως· θοίνηις δὲ καὶ εἰλαπίνηισι παρέσσηι ἐν πάσαις πολλῶν κείμενος ἐν στόμασιν, καί σε σὺν αὐλίσκοισι λιγυφθόγγοις νέοι ἄνδρες εὐκόσμως ἐρατοὶ καλά τε καὶ λιγέα ἄισονται. καὶ ὅταν δνοφερῆς ὑπὸ κεύθεσι γαίης βῆις πολυκωκύτους εἰς Ἀίδαο δόμους, οὐδέποτ' οὐδὲ θανὼν ἀπολεῖς κλέος, ἀλλὰ μελήσεις ἄφθιτον ἀνθρώποισ' αἰὲν ἔχων ὄνομα, Κύρνε, καθ' Ἑλλάδα γῆν στρωφώμενος, ἠδ' ἀνὰ νήσους ἰχθυόεντα περῶν πόντον ἐπ' ἀτρύγετον, οὐχ ἵππων νώτοισιν ἐφήμενος· ἀλλά σε πέμψει ἀγλαὰ Μουσάων δῶρα ἰοστεφάνων. πᾶσι δ', ὅσοισι μέμηλε, καὶ ἐσσομένοισιν ἀοιδή ἔσσηι ὁμῶς, ὄφρ' ἂν γῆ τε καὶ ἠέλιος. αὐτὰρ ἐγὼν ὀλίγης παρὰ σεῦ οὐ τυγχάνω αἰδοῦς, ἀλλ' ὥσπερ μικρὸν παῖδα λόγοις μ' ἀπατᾶις. | Io ti ho dato le ali per volare sopra il mare infinito e per sollevarti facilmente su tutta la terra; sarai presente nelle feste e nei banchetti, col tuo nome sulle labbra di molti, vivo. Ti canteranno ragazzi d’amore, acute voci serene, al suono di flauti. E quando negli abissi della terra oscura, giungerai alla gemente reggia di Ade, neppure morto perderai la tua fama, ma resterai nel cuore degli uomini poiché avrai nome inestinguibile, o Cirno, volteggiando per la terra ellenica e fra le isole varcando inseminati mari pescosi, e non seduto sul dorso di cavalli: ma guidato dagli splendidi doni delle muse coronate di viole. E per tutti quelli che ameranno il canto sarai vivo, finché dureranno la terra e il sole. Eppure per te non valgo niente: mi inganni con le parole, come se fossi un bambino. |
Distico elegiaco
Note
Il componimento si apre con la metafora delle ali, simbolo della poesia che il poeta dona all’amato. E’ la prima attestazione della metafora del volo in riferimento alla poesia.
Nel distico finale è presente un ἀπροσδόκητον, figura retorica che introduce un elemento inaspettato che sconvolge ciò che si è detto in precedenza. Nella morale arcaica secondo il principio di reciprocità, chiunque non ricambiasse l’altro con lo stesso comportamento manifestato, si macchiava di ἀδικία.
La silloge teognidea è caratterizzata per la maggior parte da uno stile sentenzioso. Teognide, nonostante dovesse parlare il dialetto dorico, scrive in dialetto ionico, tipico dei poeti elegiaci. Riprende formule del modello omerico modificandole, con una struttura paratattica.
Questi versi fanno parte di una silloge in due libri dedicata a Cirno, il giovane ἐρώμενος di Teognide, affinché seguisse gli insegnamenti della virtù aristocratica. Il nome del ragazzo è usato dal poeta come un sigillo, la firma dell’autore attraverso cui dichiara che i versi sono da lui composti, per evitare che vengano rubati o che gli vengano attribuiti componimenti di altri autori, consapevole della sua fama di aedo. Le sue poesie sono infatti contenute all’interno di raccolte simposiali, dato l’uso di scambiarsi elegie ai convivi, occasioni di piacere e di riflessione. Ma Cirno non è solo un mezzo del poeta per rivendicare i suoi versi; con questa elegia Teognide vuole dare al giovane una fama della stessa durata di quella di Orazio, ovvero “finché dureranno la terra e il sole”, per essere ricordato anche dopo la morte, in virtù della libido didattica dell’io del poeta. E’ presente qui l’aspetto dell’educazione dei giovani legato al rapporto omoerotico tra l’ἐραστής e l’ἐρώμενος, che doveva essere avviato alla dimensione dell’amore. Nel Corpus theognideum Cirno, come un Dorian Gray, viene lodato per la sua bellezza, di cui viene invitato a valersi prima che sfiorisca, e viene sollecitato a ricambiare l’amore di cui è fatto oggetto. Tuttavia nel distico finale l’amato, che non comprende inizialmente il dono da lui ricevuto, è accusato di non ricambiare il suo amore ed illuderlo. Questo si intreccia con la sofferenza dell’amante, che capisce che il giovane non gli appartiene completamente e piuttosto lo prende in giro e si mostra ingannevole.
Ugo Foscolo assegna una funzione consolatoria alla poesia, in quanto l’uomo travolto dalle passioni trova consolazione nell’arte, fonte di armonia e bellezza, e una funzione eternatrice e civilizzatrice, celebrando i valori umani e inducendo i posteri ad appropriarsi di questi. Il neoclassico poeta di Zante elogia quindi la bellezza eternata dal canto dei poeti, in particolare nell’ode “All’amica risanata”, un componimento d’occasione dedicato ad una donna da lui amata, Antonietta Fagnani Arese, nel 1802. Foscolo vuole rendere indelebile la bellezza della sua donna, che la malattia ha rovinato ma che l’arte può imprimere nel tempo. La funzione di quest’ode è di rendere eterna la bellezza femminile, simbolo dei valori più alti dell’umanità. Conclusa solo quando ormai il legame tra i due si è sciolto, l’ode si chiude con una celebrazione della poesia e del poeta stesso, introducendo un paragone con la lirica eolica di Saffo. Nel contesto del tiaso a cui sono riportate le sue poesie, l’amore è sentito come passione che genera sofferenza, suscita gelosia, attesa, rimpianto, nostalgia e dolore per il distacco. L’amore è caratterizzante la giovinezza ed assente nella vecchiaia a cui tutti prima o poi arriveranno. Solo la poesia è in grado di superare il tempo; il motivo della poesia eternatrice ha una delle sue più antiche attestazioni proprio nel frammento 55 della poetessa di Lesbo: “Tu giacerai morta né più alcuna memoria di te vi sarà in futuro: infatti non hai parte delle rose di Pieria, ma anche nella casa di Ade tu oscura vagherai fra le ombre dei morti, volata via di qui”. Qui il l’aspetto immortale della poesia diventa una damnatio memoriae, una minaccia di sorte di oblio a una donna ricca ma incolta e priva dei doni delle Muse, per cui morirà senza lasciare traccia di sé nella memoria.
L’arte è un monumentum che racchiude in sé ricordo e sentimento, ci mette in contatto con lo spirito del tempo e ci libera delle catene del presente. Simbolo di un orizzonte sconfinato di pensieri, rappresenta il luogo d’incontro più concreto che unisce le diverse generazioni, creando un importante legame tra passato, presente e futuro, grazie alla condivisione di emozioni, aspirazioni, storie condensate nell’opera che conserviamo. Portatrice di valori e tradizioni, l’arte unisce non solo persone lontane nel tempo ma anche nello spazio, grazie al linguaggio universale che la caratterizza: la prima ragione per cui è stata creata è la passione, propria del genere umano. In una realtà sempre più veloce, in cui il tempo fugge senza che noi ce ne rendiamo conto, l’arte è ciò che resta immobile e che nel guardarla ci permette di aggrapparci e rallentare insieme a lei. Non è certo una necessità per sopravvivere, ma è ciò per cui rimaniamo in vita. L’arte può salvare il mondo; ma solo se il mondo manterrà quei sentimenti le rendono vitalità, come Keats nel “Ode su un’urna greca” fa rivivere le figure dipinte sul vaso di età antica che, facendosi portavoce dell’eco del passato, grazie alla sua immaginazione tornano a godere del piacere dato dalla musica e dai rami perennemente in fiore, fermati in quell’istante che durerà per sempre.
Narce Eval 2021
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